PITSTOP

PITSTOP


con un contributo di Cesare Pietroiusti

evento: 01.02.2025 dalle 14:00 alle 22:00
Roma


🏁 Clicca sull’indirizzo per scoprire il punto preciso 🏁

🏎️

1° tappa: 14:00 :

SPAZIO IN SITU

via san biagio platani 7.

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2° tappa: 16:00 :

PIGNETO

via ettore fieramosca.

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3° tappa: 18:00:

SAN LORENZO

largo settimio passamonti.

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🚜

4° tappa: 20:30:

OSTIENSE

riva ostiense.

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sabato 1 febbraio 2025 a partire dalle 14:00, vi chiediamo di seguirci attraverso 4 tappe nella città di roma, o comunque di intercettarci lungo il percorso.
sei interventi si sovrapporranno al fine di creare un unico congegno, contenitore e contenuto. 
ciascuna tappa vedrà l’attivarsi dell’azione in un tempo predeterminato, per poi ripartire verso quella successiva, in un susseguirsi di gesti ripetuti, attese e aspettative; una sorta di coreografia quindi che si verifica in un momento, il pit stop appunto, un tempo di pausa che non vuol dire immobilità, ma che rimanda a un’azione in potenza.

Solar Dogs

>

SOLAR DOGS


A cura e con testo di Caterina Taurelli Salimbeni

Con:
Francesco Andreozzi, Sveva Angeletti, Alessandra Cecchini, Francesca Cornacchini, Marco De Rosa, Federica Di Pietrantonio, Chiara Fantaccione, Andrea Frosolini, Giulia Gaibisso, Daniele Sciacca, Guendalina Urbani

Inaugurazione il 27 ottobre 2023 dalle 19:00

Performance di:
Andrea Frosolini: 19:00
Francesca Cornacchini: 20:00

Spazio In Situ
Via San Biagio Platani 7
00133 – Roma

dal 27 ottobre 2023 al 30 novembre 2023


LOREM IPSUM / A collective exhibition without a theme

LOREM IPSUM

A collective exhibition without a theme

a cura di Irene Sofia Comi

Dal 18 ottobre al 19 novembre 2022
Via San Biagio Platani 7 // 00133 Roma

Lorem Ipsum è una mostra segnaposto, una formula riempitiva. Il titolo della collettiva curata da Irene Sofia Comi prende spunto dall’omonimo testo campione usato generalmente per le bozze di grafica e di programmazione che, seppur venga generato in maniera casuale, condivide alcune caratteristiche con un vero testo scritto, simulandone apparenze e struttura.
Questo testo si basa sulla storpiatura dello scritto De finibus bonorum et malorum di Cicerone del 45 a.C., dove le parole latine sono state estratte e rimescolate senza l’intenzione di creare un testo di senso compiuto. Allo stesso modo Lorem Ipsum si propone di riflettere e superare le norme metodologiche da seguire per la costruzione di una mostra collettiva, tra le quali compare, in prima linea, la necessità di una tematizzazione. Anziché concentrarsi su un tema, l’esposizione pone l’accento sulla struttura che ruota intorno al concept, allo spazio espositivo e agli apparati testuali e comunicativi, indagando i meccanismi espositivi e processuali che determinano lo sviluppo di un progetto: produzione dei lavori, spazio espositivo, allestimento, testo curatoriale, titolo, grafica, etc.
Nel mettere in pratica questa scelta, l’esposizione si propone come spazio di libera riflessione intorno a forme espressive e metodologie curatoriali più sperimentali e condivise. Spazio in Situ non è più solo un white cube, uno spazio espositivo asettico e sacrale, ma diventa anche immagine, scenografia e intervento collettivo. Le nove opere degli artisti e delle artiste dialogano nello spazio senza l’esigenza o l’obbligo di ruotare intorno a una o più tematiche comuni, esprimendosi al di fuori di vincoli e costrizioni predeterminate, diventando a loro volta suggestioni per la creazione di un racconto immaginativo.
Lorem Ipsum è un tentativo di svincolare gli sguardi, le pose e le posizioni dai punti di riferimento abituali, in un work in progress continuo tra artista, curatore e fruitore.

MATERIA NOVA – WHAT’S A MUSEUM?


INAUGURAZIONE: 21 Dicembre 2021 – fino al 13 Marzo 2022

MATERIA NOVA – A cura di Massimo Mininni – GAM Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale

Spazio In Situ Post Ex – Ombrelloni Art Space – SPAZIOMENSA – Off1c1na – Condotto48 – Castro – Paese Fortuna

What’s a museum?

Il luogo in cui viene esposta un’opera ha il potere di legittimarne il valore. Un concetto che, applicato alla lettera, conferisce al contenitore un’aura maggiore di quella che scaturirebbe dal contenuto.Immaginate, solo per un istante, che il contenuto si trasformi in contenitore del contenuto stesso, e, viceversa, che il contenitore diventi soggetto della rappresentazione. Cosa ne risulterebbe? Il contenuto del contenitore o il contenitore del contenuto? Un cortocircuito concettuale, un ripiegamento tra significato e significante in grado di generare una riflessione circolare autonoma; una coppia di specchi che si contemplano a vicenda annullando completamente la percezione dell’originale, in un perpetuo ripetersi di copia/incolla. Forse stiamo divagando, ma forse è anche questo un punto di partenza per interagire con un museo o con una mostra che estrapola degli “spazi” dal loro contesto, riproponendoli in altri “spazi”. È dunque evidente che, per portare avanti quest’azione al limite dell’assurdo, lo spazio interrogato riproduce lo spazio in cui viene ospitato. Perdendosi tra domande fuori luogo anche se site specific, Spazio In Situ invita il pubblico a guardare il museo, o la sua rappresentazione, ponendo l’attenzione sulle sue caratteristiche e sul suo statuto, che orienta e plasma l’atteggiamento dell’individuo fino a renderlo spettatore.

GAM Galleria D’arte Modera di Roma Capitale
Via Francesco Crispi, 24, Rome, Italy

IPERSITU

IPERSITU

inaugurazione il 30 ottobre Spazio In Situ dalle 18:30
dal 31 ottobre al 28 novembre 2021
dalle 11:00 alle 20:00 (su appuntamento)
Via San Biagio Platani 7A cura di: DANIELA COTIMBO

Artisti:
SVEVA ANGELETTI // ALESSANDRA CECCHINI // CHRISTOPHE CONSTANTIN // FRANCESCA CORNACCHINI // MARCO DE ROSA // FEDERICA DI PIETRANTONIO // CHIARA FANTACCIONE // ROBERTA FOLLIERO // ANDREA FROSOLINI // DANIELE SCIACCA // GUENDALINA URBANI

foto di Marco De Rosa


“In un iper-luogo ogni individuo incontra il mondo. Sperimenta l’esperienza intensa di condividere temporaneamente uno spazio di affinità con persone provenienti da tutto il pianeta. Una moltitudine di flussi, energie, forze e destini li attraversa ogni giorno. Vi si incrociano le linee di vita di coloro che li abitano, sia di passaggio che per lavoro o per viverci.” Michel Lussault

Ipersitu nasce con l’intento di investigare lo spazio d’artista come un iperluogo, flusso incessante di scambi tra fisico, cognitivo e digitale in relazione alla pratica artistica.
Nell’attuale era post pandemica, tale pratica ha subito radicali cambiamenti, dovendo far i conti non solo con la mancanza di risorse e con l’impossibilità di preservare i propri rituali in termini di presenza e relazioni ma anche con l’intensificarsi dell’utilizzo dei media digitali come luoghi di aggregazione e significazione.
Tutto questo ha coinciso con una totale mancanza di riconoscimento istituzionale e con il rischio per gli artisti di essere relegati alla dimensione dell’invisibilità.
Proprio lo studio, in questo senso, ha rappresentato una forma di resistenza, preservando non solo il suo ruolo di luogo deputato alla ricerca ma aprendosi anche all’attività espositiva e di accoglienza, confermando così la sua valenza sociale e culturale.
In occasione del quinto anniversario di Spazio in Situ, gli undici artisti che ne fanno parte sono chiamati ad interrogarsi sul ruolo intermediale dell’artist-run space, crocevia di esperienze interconnesse.
Tale indagine passa inevitabilmente da una rivisitazione dello spazio: l’area normalmente deputata all’esposizione diventa un ipertesto, collegando il “dentro” delimitato dalle pareti bianche con un “altrove” che assume forme mutevoli, spesso filtrate dallo sguardo tecnologico; gli studi invece si aprono temporaneamente alla dimensione espositiva, trasformandosi in display, luoghi di autorappresentazione della pratica stessa.
Attraverso lo sguardo sullo spazio del fare, gli artisti indagano anche quel complesso sistema di legami che intercorre tra di loro e che spesso si sostanzia in una identità collettiva, così come il ruolo dell’osservatore nella costruzione dell’opera stessa.
L’iperluogo artistico diviene un territorio di risignificazione in grado di contenere la complessità del presente e di generare nuove forme di convivenza.

1. Sveva Angeletti

Display: Scontorno a 2Є, videoproiezione, 00.03.00 min.

L’opera racconta come l’artista emergente sia spesso portato a svolgere lavori saltuari e prestazioni occasionali pur di garantirsi un sostentamento. Angeletti ha lavorato per due anni nell’ambito della postproduzione fotografica con l’obiettivo di ingentilire immagini di opere d’arte altrui, pronte per il secondo mercato, quello delle case d’asta. Il ruolo dello “scontornatore” è paragonabile a quello dell’operaio, che ripete gli stessi comandi in modo compulsivo. Ogni volta che questa operazione viene messa in campo, il contesto significante cambia. Scontorno a 2Є mette in evidenza la natura instabile di ciò che guardiano in un’era in cui ogni cosa è soggetta alla postproduzione. Il luogo diventa qui un campo aperto, su cui è possibile intervenire attraverso un gioco di alternanza tra contenuto e contenitore.

Studio: Studio Visit, installazione sonora, 16.07.00 min e QR.

L’opera riflette sulla dinamica della studio visit, modalità di fruizione privata dell’opera d’arte all’interno dello spazio intimo di produzione dell’artista. L’impostazione lessicale particolarmente ironica, se da un lato dissacra il concetto dell’atelier contestualizzandolo nella realtà di uno studio professionale, dall’altro riflette sulla modalità sociale di costante corteggiamento da parte degli artisti verso un sistema dell’arte composto da galleristi, curatori, mercanti e collezionisti. Laddove queste personalità non trovano il tempo di andare a fare uno studio visit, lo studio visit diventa portatile: da qui la configurazione formale in un lavoro audio trasportabile e ascoltabile comodamente in cuffia.

2. Alessandra Cecchini

Display: Playing with the idea of a city, 2021, installazione multimediale, dimensioni variabili (durata video 01:30:00 min circa).

L’installazione, composta da due vecchi monitor e da materiale edile, mostra i due video di una partita a Age of Empires II, un videogioco strategico (Ensemble Studios, Microsoft Corporation 1999), giocata tra l’artista e suo fratello. Il basamento su cui poggia l’installazione riporta su un altro piano la narrazione in atto nel video: ogni evoluzione all’interno del gioco è infatti caratterizzata dal cambiamento dei materiali utilizzati e delle tecniche di costruzione. Obiettivo del gioco è quello di costruire intere città fatte di edifici militari e civili e sconfiggere le popolazioni nemiche. Dietro questa struttura apparentemente semplice, sono nascosti diversi riferimenti storici e alcuni elementi come per esempio le mura, l’università, il santuario che soggiacciono all’idea stessa di città e alla sua sopravvivenza. Il gioco evoca anche le potenzialità di armi invisibili come la fede e la conoscenza. Tenendo presenti tutti questi elementi, viene messa in atto una partita destinata al fallimento in cui l’artista difende la propria città ideale senza mai attaccare, sovvertendo così il principio di sopraffazione alla base del gioco stesso.

Studio: Archive for an ideal city, 2021, intervento site-specific per Ipersitu, misure ambientali.

In Archive for an ideal city, Cecchini mette in mostra la sua ricerca sulla città ideale che ha come punto di partenza il concetto stesso di città sviluppatosi nel corso dei secoli attraverso narrazioni contraddittorie e imprevedibili. Punto di partenza di questa esplorazione è sicuramente La Sforzinda, città ideale mai realizzata narrata da Filarete nel suo Trattato dell’Architettura (1460 ca.) e accompagnata da una serie di illustrazione che ne documentano il progetto. A questo riferimento ne fa eco uno contemporaneo, citato da James Bridle in Nuova Era Oscura (Nero Editions, 2019) che riguarda Veles, città della Macedonia, divenuta dal 2016 centro propulsore di fake news. L’operazione deliberatamente congeniata al fine di restituire un’identità ad un luogo a cui era stata sottratta dalla storia appare un interessante tentativo immaginativo filtrato dallo sguardo tecnologico odierno e dai social media. Attraverso questo progetto l’artista pone luce su quelle forme ricorrenti che ruotano intorno al concetto di città, evidenziando il loro significato simbolico e lo stratificarsi nel tempo.

3. Christophe Constantin

Display: Attraverso lo schermo, 2021, cornice in legno, LED, alluminio, plastica, pvc, 147×127 cm.

Una cornice luminosa modifica l’apparenza di una finestra, trasformandola in un simulacro dello schermo. L’opera interroga il confine tra arte e realtà, tra realtà e virtuale e tra arte e virtuale, sottolineandone le interazioni e contaminazioni. Il riferimento evidente al monocromo blu, simbolo di una pittura che si libera dall’urgenza della rappresentazione, diventa a sua volta un codice stratificato che mette in connessione il dentro dello spazio espositivo con il fuori della strada, ma anche con tutto ciò che è un altrove iperconnesso.

Studio: Aria di lavoro, 2021, tombino, smalto su ghisa, 18x130x115 cm.

Per Constantin, lo studio d’artista è una zona in cui portare avanti la propria ricerca, in cui il lavoro prende forma e la presenza dello spettatore non è prevista. Il suo ruolo, comincia quando l’opera è in mostra. La pratica voyerista di visitare lo studio d’artista è spesso assecondata dagli artisti che letteralmente “allestiscono” il proprio studio ai fini della fruizione. Questa posizione “fuori luogo” dello spettatore è goliardicamente associata al gesto effimero di fissare un tombino. Al tempo stesso, l’oggetto sembra alludere ancora una volta ad una dimensione di riappropriazione estetica nonché ad una via di fuga, strategicamente ideata per permettere all’artista di congedarsi dal suo pubblico.

4. Francesca Cornacchini

Display: S4N S3B4 CH4LL4NG3<3 #1, 2021, video, 00:10:00 min circa.

Vuk Cosic nel 1997 affermava “L’arte era solo un sostituto di Internet”. In particolare l’opera di Francesca Cornacchini allude alle internet challanges, anello di congiunzione tra performance art, i programmi tv basati sul superamento di prove ridicole o pericolose e la partecipazione a rituali collettivi. La performance si fa debole vittima della fruizione involontaria di Youtube o Tik ToK, in un’epoca in cui il corpo viene messo costantemente alla prova tra fail, challanges, dirette e filtri fotografici. Francesca Cornacchini parte dalla cultura underground, come congegno per navigare contromano nel deep web dell’arte contemporanea. Con S4N S3B4 CH4LL4NG3<3 l’artista sovrascrive dati ed icone, informazioni ed estetiche differenti mettendo in scena una sorta di nuovo martirio che sa di club, di squat e sovrapponendo l’iconografia cristiana a immagini caotiche e casuali, violente e underground. Il risultato è un video in cui si tatua casualmente il costato riproducendo il gesto del martirio del San Sebastiano.

Studio: S4N S3B4 CH4LL4NG3<3 #2, 2021, installazione ambientale.

Questo video trasmesso nello spazio espositivo ha un diretto rimando nello studio dove è esposto l’intero set in cui si è svolta l’azione.

Ogni elemento rimanda al momento stesso della performance; questa volta sono gli utensili e i suoni che l’hanno accompagnata a proiettarci in una dimensione temporale estranea in cui i segni emergono là dove la presenza è sottratta. L’opera mette in discussione concetti come il luogo, che risultata frammentario e traslato, il corpo che si autodetermina nella pratica del tatuaggio e soprattutto il tempo, che sfugge all’esperienza diretta e si fa rappresentazione: un tempo inteso come un susseguirsi di “adesso” scanditi solo dalla stratificazione di simboli e blocchi di dati.

5. Marco De Rosa

Display: Binge shoping, video, 00.06.00 mim.

Il progetto indaga lo spazio espositivo come display della pratica artistica, facendo emergere tutto ciò che si cela dietro le quinte di un lavoro. Nel video viene registrato l’intero processo di reperimento dell’asta che sospende il monitor esposto e che parte dalla scelta, si materializza nell’acquisto, fino a giungere al montaggio dell’opera. In questo percorso, che passa attraverso piattaforme ditali quali Amazon, diverse spazialità e temporalità si interconnettono, dando vita ad un’esperienza ibrida, all’interno della quale l’opera assume il suo status discostandosi dalla mera oggettualità.

Studio: Vetrina in allestimento, 2021 installazione site specific, dimensioni ambientali.

Anche nel caso di Marco De Rosa, il momento della produzione è un’esperienza intima in cui non necessariamente il pubblico è chiamato a prender parte. Vetrina in allestimento gioca sul confine del voyerismo, amplificando il senso dell’attesa per qualcosa che sta per essere messo in mostra ma privando il pubblico della possibilità di accesso allo spazio. Una copertura in plastica semi-opaca, simile a quella usata nei cantieri, impedisce di vedere cosa effettivamente avviene nello studio. Qui, come in molte sue opere, De Rosa utilizza il linguaggio mutuato dalla strada per soffermarsi sul contesto che permette all’opera di materializzarsi in quanto tale, attraverso lo sguardo incuriosito del suo pubblico.

6. Federica Di Pietrantonio

Display: does it makes u feel alive (tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi intorno a un sasso che cade nell’acqua), 2021, machinima video from GTA Vice City, video, color, sound, 15:00:00 min.

does it makes u feel alive è un gesto disperatamente ripetuto che fa eco a il tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi intorno a un sasso che cade nell’acqua (1969), performance di Gino De Dominicis basata sull’impossibilità di eseguire un’azione ottenendo uno specifico risultato. L’innata propensione umana al trovare un’alternativa alle leggi fisiche che governano il mondo concreto, trova analogia nelle dinamiche che abitano l’ambiente virtuale.

Il video, girato su GTA Vice City, mostra un’azione impossibile: nuotare nell’acqua. Quest’azione, connaturata all’istinto umano, non è inclusa come “feature” all’interno del videogioco, il solo tentativo di entrare in acqua ed immergersi causa la morte. Questo tentativo tanto utopico quanto fallimentare ha dato vita a vari trend su youtube creando un rimando diretto con la performance artistica degli anni Settanta.

Riferendosi allo stadio dello specchio descritto da Lacan, possiamo leggere questo gesto da un lato, con un tentativo disperato di cercare sé stessi nell’altro e dall’altro come la possibilità per un alter ego tecnologico di incarnare comportamenti umani quali l’errore, il fallimento e l’apprendimento.

Studio: why is lasting better than burning, 2021, installazione multimendiale.

Con why is lasting better than burning, Di Pietrantonio porta avanti uno dei temi della sua ricerca attuale, legato al confine tra identità e replicabilità mediale. In questo caso, una voce sintentica, generata tramite una intelligenza artificiale, riproduce le vocalità dell’artista mentre legge un testo da lei composto, frutto di una ricerca all’interno dei libri che hanno segnato il suo percorso educativo dall’adolescenza ad oggi. L’artista ha selezionato i libri e copiato le vecchie sottolineature riassemblando tutti i pezzi e cercando di trovare un nuovo significato. Da una parte c’è quindi un tentativo di riappropriazione del sé, dall’altra invece, attraverso l’utilizzo della voce clonata in IA, c’è un’attitudine alla privazione, spersonalizzazione e strumentalizzazione della propria identità.

7. Chiara Fantaccione

Display: En plein air, 2021, installazione (ipad, video da live webcam online, mensola, supporti), 190x40x26 cm.

​​Nell’opera En plein air un paesaggio fittizio nasce dall’accostamento di più dispositivi che riproducono in tempo reale video in streaming di webcam liberamente consultabili online, poste in luoghi difficilmente accessibili e degni di interesse paesaggistico, stimolando un interrogativo riguardante la veridicità di ciò che si sta osservando e una riflessione sull’azione voyeuristica messa in atto nei confronti dell’ambiente. Le immagini perdono la funzione di monitoraggio per assumere una propria identità e un’estetica che ce le fa apparire meno estranee. Questo paesaggio immaginario ci pone antropologicamente dalla parte di chi lo osserva, quella di un moderno Friedrich che contempla la potenza della natura, senza immergervisi con il proprio corpo. Dall’altro lato, l’esistenza di archivi di webcam online dedicate interamente al paesaggio, porta alla mente lo sforzo di tanta pittura impressionista di fermare l’attimo, superato dalla capacità del “tutto e subito” (e per sempre) delle immagini contemporanee.

Studio: Romantic base camp 2021, installazione (tenda da campeggio, tappeto, sunset lamp, fiori stabilizzati ed essiccati, cemento), 200x200x160 cm.

La struttura della tenda delimita uno spazio di separazione dall’esterno, ma esiste soprattutto in funzione di esso, ponendosi in una posizione di rispetto. Questo tipo di relazione è quella che esiste abitualmente anche tra lo spazio espositivo e l’opera site specific che lo abita. La tenda diventa quindi contenuto dell’ambiente e contenitore di paesaggi effimeri, come il tappeto verde prato e la “sunset lamp”, oggetti acquistabili online per soddisfare la necessità di emulazione e di rappresentazione. Il termine romantico è qui utilizzato con una doppia accezione, quella inerente alla sfera del cliché sentimentale come nel caso del tramonto, dei fiori, della camera per due, ma anche quella che allude allo spirito del Romanticismo e alla volontà di dominare la natura, possederla, anche attraverso simulacri kitsch. Il gap tra esperienza diretta e indiretta è colmato solo dalla rappresentazione, che sembra essere l’unica via aderenza al reale.

8. Roberta Folliero

Display: Picture this, 2021, installazione, materiali vari.

Il lavoro consiste in una serie di carrelli di metallo su cui sono posizionate delle piante e vari attrezzi che servono per garantirgli le dovute cure. Le piante scelte hanno necessità differenti, dalla luce, all’acqua, all’utilizzo di specifici nutrienti fino al rinvaso. Su ognuna sarà inserito un piccolo cartellino con un QR code che rimanda ad una delle più cumuni app che identificano la tipologia di pianta e suggeriscono le adeguate cure. L’idea è quella che il pubblico della mostra possa dedicarsi direttamente a queste pratiche, modificandone la posizione e interagendo con gli strumenti a disposizione. In questo modo il progetto dialoga con lo spazio espositivo e con gli stimoli provenienti dall’esterno. I carrelli rappresentano quindi dei connettori mobili, in grado di mettere in relazione, interno ed esterno rispondendo alle necessità dell’opera stessa.

Studio: Moving home, 2021, installazione, scatoli e materiali vari.

Il lavoro consiste nell’impacchettare gli oggetti personali dei componenti dello studio rimossi in funzione delle necessità della mostra e nel collocarli all’interno dello studio dell’artista. In questo modo Folliero mette in scena le dinamiche di un vero e proprio trasloco che consistono nel prendersi cura degli oggetti e della loro fragilità, nell’etichettarli e nel collocarli all’interno dello spazio che perde la sua funzione di luogo di lavoro e ricerca per divenire magazzino di stoccaggio. Lo studio accessibile unicamente attraverso la finestra dialoga con lo spazio espositivo, ancora una volta sovvertendo le leggi confortevoli del white cube.

9. Andrea Frosolini

Display: Bunny is a Rider, 2021, installazione (iPhone e audio) e performarce.

Bunny is a Rider è la narrazione finzionale di un blind-date (appuntamento al buio). I rider, branca della subcultura leather/bdsm, sono uomini (spesso omosessuali) con un forte feticismo per l’abbigliamento tecnico da motociclismo.

L’identità del soggetto rimane celata durante l’intero incontro, il volto non viene mai scoperto e si prediligono pratiche sessuali come il petting, che esaltano tramite lo sfregamento la sensazione con la superficie in pelle che separa i corpi.

L’assenza di identità dei soggetti esalta l’imprevedibilità dell’incontro, creando una situazione potenzialmente ideale. Il rider diventa una blank-canvas su cui riversare la propria definizione ideale di sé. Una maschera ci consente di mostrarci per quello che vorremmo essere, un avatar potenzialmente perfetto del proprio io.

La performance vede due rider, perfetti sconosciuti nella vita, incontrarsi all’interno dell’atelier. L’ambiente è il risultato di una scenografia appositamente congeniata, frutto della conversazione privata dell’artista con i singoli performer che scelgono lo sfondo ideale di questo incontro, un parco berlinese, e gli oggetti che compongono il set.

L’azione mette in risalto il paradosso dell’inversione dei ruoli, mentre tutto è maschera e finzione, lo spettatore è senza veli, costretto a mostrare il suo voyerismo.

Nello spazio espositivo, un iPhone è dimenticato a caricare sul davanzale della finestra.

La cover in pelo con orecchie richiama il titolo della performance che nel frattempo si svolge nell’atelier. La privacy dell’artista è costantemente messa in discussione dalla ricezione di notifiche provenienti dall’app di incontri Grindr attiva sul suo cellularee.

Lo speaker accentua l’audio delle notifiche, segnalando l’arrivo di ogni nuovo messaggio. Il pubblico non ha accesso al contenuto di questi messaggi, ne può valutare solo la quantità e la frequenza. Ancora una volta Frosolini gioca con gli elementi del privato per mettere in luce la natura voyeristica del pubblico, al contempo interroga un altrove fatto di relazioni mediali, frutto delle possibilità offerte dalle piattaforme di social networking.

10. Daniele Sciacca

Display e studio: No stress #1, 2021, QR, collegamento streaming e performance.

Il progetto No stress nasce dall’ angoscia che l’artista vive nel dover mettere in “mostra” il proprio spazio privato e dal desiderio di voler celare il dietro le quinte del proprio lavoro inteso come una confort zone, dove poter sperimentare, sbagliare e riprovare. Se lo spazio espositivo raffigura il palcoscenico per l’artista che si mette in mostra, lo studio rappresenta il dietro le quinte, accessibile solamente agli addetti ai lavori. Lo studio visit ribalta questo principio consentendo al pubblico di spiare ciò che sta dietro all’opera stessa. Il gesto performativo di Sciacca consiste nell’assoldare un’impresa di pulizie che ordini e pulisca lo studio così da poterlo rendere presentabile. L’azione verrà costantemente ripresa su un canale Twitch e sarà fruibile anche all’interno dello spazio espositivo principale, rimarcando quest’attitudine alla spettacolarizzazione dell’arte e dell’artista da parte del pubblico ma anche creando nuove forme di connessione spaziale mediate dallo sguardo tecnologico.

11. Guendalina Urbani

Display e studio: Pastelli, 2021, fotografia macro 31 x 21 x 2,8 cm e installazione.

Una fotografia ritrae un oggetto comune, un vasetto contenente dei pastelli a cera, con questo lavoro Urbani mette in discussione la nostra capacità di guardare, filtrata dalle immagini patinate a cui l’estetica pubblicitaria e del web costantemente ci sottopone.

Nello studio lo stesso soggetto si rivela per quel che realmente è, sovvertendo le leggi dello spazio e costringendoci ad affinare lo sguardo. I due interventi connettono lo spazio, quello fisico con quello della rappresentazione.

Spazio In Situ
Via San Biagio Platani 7
METRO C > FONTANA CANDIDA/DUE LEONI

LAB1 at ARTVERONA

Spazio In Situ _ a project by Porter Ducrist

at LAB1 curated by Giulia Floris // ARTVERONA 2021

MADE IN ITALY

Spazio In Situ at TILT 
Dal 12 al 26 Giugno 2021
> Inaugurazione: Venerdì 11 Giugno alle 18

> aperture Sabato 12 – 9 – 26 Giugno
dalle 10 alle 16
su prenotazione 
info@espace-tilt.ch

TILT
ingresso:  La rue Neuve
tra il civico 1 e 3 
Place du Corso 
1020 Renens
www.espace-tilt.ch

//ENG BELOW

Per la prima volta, Spazio In Situ (Roma) espone all’estero. L’artist-run space romano, fondato nel 2016, ha deciso per l’occasione di mettere in discussione la propria italianità. 

Esportando se stessa, la penisola italiana, come ogni paese, esporta anche una serie di immagini, luoghi comuni che compongono un ritratto spesso caricaturale di quella che può essere definita l’identità nazionale. Spesso, questa rappresentazione si riduce all’idea di una semplice cartolina; una sintesi grezza di una forma di orgoglio nazionale, di una messa in scena del patrimonio. 

Con autoironia, i membri di Spazio In Situ hanno deciso di intraprendere questo spostamento: rappresentando tratti della loro vita quotidiana, giocano con l’immaginario collettivo in giro per l’Italia, con la banalità del cliché. 
“Made in Italy” ci porta per le stradine della capitale italiana attraverso gli occhi degli 11 artisti di In Situ, sublimando con sarcasmo il banale e sottolineandone i paradossi.

L’idea dello spostamento li ha spinti a creare opere smontabili. Progetti destinati ad aggirare i problemi burocratici legati al trasporto delle opere d’arte, aggiornando il famoso Articolo 22, o il tipico “arrangiarsi” italiano. Questi frammenti di realtà diventano piccole composizioni che attirano regolarmente l’attenzione dei turisti, aggiungendo un tocco di assurdo a qualsiasi viaggio in Italia. Immagini ridondanti, che le opere esposte invitano lo spettatore a sperimentare, arrivando fino alla periferia romana di Tor Bella Monaca, dove si trova Spazio In Situ.

“Made in Italy”? Beh quasi, la provenienza degli oggetti non è certa, bisogna considerare che il ready made contemporaneo ha i suoi limiti, e bisogna accettare che la tracciabilità degli oggetti esposti ha poca importanza quando si parla di opera d’arte.

ENG

Arrived at the ending of this season that we could define as eventful, Spazio In Situ decides to make the artists from the Italian and roman scene and artists of the international scene, dialogue each other.
Through a selection of artworks that focus on travel, the curator P. Ducrist has built an exhibition path to tell his concept of contemporary art aesthetics, where emerge concretely, the wrecks of concepts developed by the romantic movement. Thus, there’s no better place than Rome, the leading city of the Grand Tour, as the destination to receive and catalyze this thought.
In this context, the chosen place adds to Voyage/Voyage a primordial interpretation, that obliges the public to think about the contemporary transposition of turism, with its massification and, in the actual circumstances, with its complete nullification.

Travel is the starting point of thought that the curator proposes to the public of the artist-run space of Tor Bella Monaca, to focus on the several problems of contemporary art. From the action of traveling to the one of moving, bringing back the spectator to his everyday life, scattering and redundant fragments of the treated theme, and finding a winking to the classical subject of the history of art. Ultimately, the exhibition doesn’t aim to take a specific and univocal position, contrariwise it tries to open new tracks that are referred to the concept and its shapes, putting on the foreground the complexity of this theme, to show to the roman public a broad and heteroclite vision. When one starts a journey, there is always a departure and an arrival point, but it is in the middle that we write a tale, with the important stops, chance encounters, not to mention the importance of the means of transport. When we decide to leave, consequently we embark on a journey, a story that Voyage/ Voyage decides to tell you.

<=/SPAC3

Spazio In Situ presenta: <=/SPAC3 _a cura di Porter Ducrist

<sveva angeletti> Trecentosessanta metri cubi circa
<alessandra cecchini> Contenere il cielo #3
<christophe constantin> Non-finito
<francesca cornacchini> Ruins of me
<marco de rosa> Sirena
<federica di pietrantonio> im all poor drowings and bad decisions, tenderly basic
<chiara fantaccione> Every time I look at you I fall in love
<roberta folliero> un po’ d’aria fresca
<andrea frosolini> KINDA SINKIN’ <but still wet>
<guendalina urbani> bicchiere

#1 inaugurazione: 24 Ottobre – 13:00/21:00
#2 inaugurazione: 31 Ottobre – 13:00/21:00

– <=/SPAC3 è prorogata fino al 15 Gennaio 2021, in accordo con le nuove normative.

– per mantenere le norme di sicurezza consigliamo ai visitatori di contattarci per organizzare al meglio gli orari e non creare assembramenti.

La mostra sarà visitabile ogni giorno <su appuntamento> dalle 10:00 alle 18:00.


<insitu.roma@gmail.com – IG: @spazioinsitu FB: @insituroma>

La digitalizzazione intensiva inserita nel sistema Arte impone grandi cambiamenti organizzativi e concettuali che modificano a fondo il dispositivo di esposizione. Fino a poco fa la tecnologia numerica era un appoggio, come una protesi che offriva una maggior visibilità di un oggetto concreto. Mese dopo mese, anno dopo anno, ha preso più importanza che mai ed è diventata la finalità stessa dell’opera, ossia una smaterializzazione dell’oggetto con un potenziale riproduttivo infinito, con un costo pari al nulla. Un tale processo annulla completamente l’Aura di un’opera, riducendo il confronto con lo spettatore alla mera rappresentazione dell’opera stessa. La digitalizzazione è riuscita ad imporre al sistema arte una perdita totale di legittimità, il tutto con il consenso dell’ambiente nella sua quasi totalità. Questa corsa sfrenata alla visibilità ha annichilito una caratteristica profonda del ruolo dell’artista, requisendogli il monopolio sulla produzione d’immagini, capovolgendo, anzi, la situazione in una forma di grande “copia/incolla” nella quale non si capisce più chi è l’originale e chi il falso. Il più grande problema è l’omogeneizzazione del discorso in questo “gran teatro di pazzi” che è diventata la vita contemporanea. L’opera dematerializzata è traslocata in un non-luogo, sommando un calco sul piano della raffigurazione del reale, come se l’arte dovesse illustrare la copia della copia di se stessa, essendo, quest’ultima, una rappresentazione del reale, una sorta di superamento ascendente della realtà. Un’azione che la distacca completamente da qualsiasi critica, essendo diventata essa stessa il risultato di una trascendenza semiologica; L’Arte È! Tale statuto la protegge tramite un auto-legittimazione, priva di dialogo e di confronto, priva anche di una possibile via di uscita. L’arte con la digitalizzazione ha perso la sua ragion d’essere, in un processo analogo a quello che ha interessato il mondo della pittura nell’ottocento, sopraffatta dalla fotografia. Diventa interessante vederne gli effetti, quello che rimane dopo aver rimosso ciò che era ancora tangibile nell’apparato di esposizione. <=/SPAC3 è quindi pensata nell’ottica di un capovolgimento dell’oggetto mostra, integrato al non-luogo che ha sostituito lo spazio espositivo; sottolineandone le caratteristiche come una lunga descrizione, la mostra racconta lo spazio nella sua immaterialità e, insieme, la sua concretezza semantica all’epoca della sua riproducibilità digitale. Sottraendo allo spazio lo statuto di veicolo di arte, è l’arte stessa che ne giustifica l’utilità. Un tale cambiamento di postura, ne rivela una totale illeggibilità del senso, rendendone astratta persino la sua definizione. È nella ricerca di un senso che il pubblico è invitato a spostarsi tra le opere. Queste dialogano tra di loro fluttuando nell’ambiente, immergendo lo spettatore in un grande limbo, alla ricerca ossessiva di un filo logico. Ma nella destrutturazione del discorso, le opere esistono da sole, obbligando il fruitore a navigare nell’incognito.

Porter Ducrist

ENG//

The intensive digitization inserted in the Art system requires major organizational and conceptual changes that fundamentally modify the display device. Until recently, numerical technology was a support, like a prosthesis that offered greater visibility of a concrete object. Month after month, year after year, it has taken on more importance than ever and has become the very purpose of the work, that is, a dematerialization of the object with an infinite reproductive potential, with a cost equal to nothing. Such a process completely cancels the Aura of a work, reducing the confrontation with the viewer to the mere representation of the work itself. Digitization has managed to impose a total loss of legitimacy on the art system, all with the consent of the environment in its almost totality. This unbridled rush to visibility has annihilated a profound characteristic of the artist’s role, requisitioning him the monopoly on the production of images, turning the situation upside down in a form of great “copy / paste” in which it is no longer understood who the artist is. ‘original and who the fake. The biggest problem is the homogenization of discourse in this “great theater of madmen” that has become contemporary life. The dematerialized work is moved to a non-place, adding a cast on the level of the representation of the real, as if art were to illustrate the copy of the copy of itself, the latter being a representation of the real, a sort of ascending overcoming of reality. An action that completely detaches it from any criticism, having itself become the result of a semiological transcendence; Art IS! This statute protects it through a self-legitimation, without dialogue and confrontation, also without a possible way out. With digitization, art has lost its raison d’etre, in a process similar to the one that affected the world of painting in the nineteenth century, overwhelmed by photography. It becomes interesting to see the effects, what remains after removing what was still tangible in the display apparatus. <= / SPAC3 is therefore conceived from the perspective of an overturning of the exhibition object, integrated with the non-place that has replaced the exhibition space; Underlining its characteristics like a long description, the exhibition tells the space in its immateriality and, at the same time, its semantic concreteness at the time of its digital reproducibility. By subtracting the status of vehicle of art from space, it is art itself that justifies its usefulness. Such a change of posture reveals a total illegibility of its meaning, making even its definition abstract. It is in the search for meaning that the public is invited to move between the works. These interact with each other floating in the environment, plunging the viewer into a great limbo, obsessively searching for a logical thread. But in the deconstruction of the discourse, the works exist by themselves, forcing the viewer to navigate the unknown.

Porter Ducrist

what kind of perversion im showing off

Spazio In Situ continua la presentazione delle sue varie sfaccettature, con una mostra questa volta legata ai collegamenti che internet e il virtuale possono creare, dei ponti che li connettono direttamente alla realtà. “What kind of perversion I’m showing off” apre un dialogo tra le opere di Francesca Cornacchini, Federica Di Pietrantonio, Chiara Fantaccione e Andrea Frosolini, nel quale l’immagine viene materializzata e l’oggetto perde la sua forma tangibile, dove concetti diventano visibili e dove la barriera tra reale e illusione collassa per lasciare il posto a un super-realismo, integrato nella nostra quotidianità.

Il curatore dice:

Da ogni cultura detta alternativa emergono punti focali e domande che meritano di essere approfondite. Il Post-Internet non è un’eccezione alla regola, anche se frequentemente si è incentrato sul medium e la tecnologia, lasciando da parte il cambiamento drastico che ha imposto alla società, compresi le comodità e i problemi che si sono svelati durante gli ultimi anni e che influenzano la vita di ogni individuo. È sicuramente una tematica di cui tutti siamo consapevoli e di cui tutti possiamo avere un’opinione positiva e negativa allo stesso tempo, tematica da prendere sicuramente con i guanti per non aprire polemiche demonizzanti o cadere nell’elogio accecante della novità. Che si ami o si odi, internet ha modificato in profondità il modo in cui interagiamo con ogni elemento del sistema contemporaneo, l’arte compresa. Diventa esso stesso sistema perché dialoga in modo diretto con ogni singolo oggetto o con ogni azione che eseguiamo ogni giorno. Il modo in cui è entrato nella nostra quotidianità e con il quale contamina le nostre realtà rivela una caduta di confine, una perdita di ogni limite imposto da un modo di pensare ormai superato, creando ben spesso paradossi che mettono il mondo di fronte ad una sfida, un dilemma che cambierà sicuramente l’intera società a venire.
Questa perdita di frontiera cambia la definizione di qualunque concetto linguistico inventato per categorizzare le nostre azioni e i nostri diritti, cominciando dalla privacy, che ormai viene difesa in modo assurdo, in contrapposizione con il narcisismo universale e il bisogno di rendere pubblico ogni avvenimento o pensiero della propria vita. Difendere la preservazione della sfera intima in tal caso diventa incongruo, anzi dimostra una mancanza di coerenza tra l’azione e la richiesta. La privacy è un concetto ormai antiquato, poiché barattato con la necessità di mettersi in mostra, di esibirsi fino a trasformarsi in un’immagine senza diritti e senza identità propria. Quest’idea ha messo radici al più profondo dell’inconscio collettivo, distruggendo la dialettica tra oggetto e soggetto, mettendo in primo piano la rappresentazione che ne risultava. Internet ha reso piatto l’oggetto, superficializzando il senso e la sua definizione. La vita è diventata un’opera degna di essere vista.
La smaterializzazione di ogni cosa non è sconosciuta all’ambito dell’arte, ricordiamo la mostra “Les Immatériaux” inaugrata negli anni 80 a Beaubourg, dalla quale si potevano immaginare le infinite opportunità che la tecnologia poteva aprire e di quanto poteva essere sconvolgente per ogni entità della società. Passati ormai più di trent’anni, sono cadute tante illusioni, sono certamente state frenate tante possibilità di sviluppare idee nuove, per motivazioni non sempre trasparenti; ormai è tempo forse di fare il punto, ignorando l’illusione che la tecnologia basta per giustificare un concetto. Il media anche se interattivo non rende per forza un’opera contemporanea. Non mi fate dire quello che non ho detto, non sprono un ritorno a vecchie tecniche per giustificare l’arte, ma difendo un uso motivato di ogni medium possibile: “La forma risponde al concetto, non deve essere un’aggiunta che servirebbe solo a spettacolarizzare e a complicare la lettura di un opera”. Come segnalato prima, tentare di difendere la pittura piuttosto che un media più recente sarebbe un tentativo di catalogare e di rimettere limiti, l’idea è piuttosto quella di fare dialogare e interagire i vari supporti offerti al fine di creare una dialettica che s’inserisce perfettamente nella descrizione della società contemporanea. “What kind of perversion I’m showing off” offre al pubblico una visione sul modo con il quale interagiamo con le “Nuove” tecnologie, tentando di rendere tangibile concetti astratti e dando forma a atteggiamenti generalizzati, aggiungerei banalizzati. Non si tratta di dare forma reale a un gesto artistico, ma di dare forma artistica ad un atteggiamento reale, rivelandone certi aspetti e certe conseguenze. La mostra svela il rapporto trasversale intrinseco ad ogni oggetto o persona, una dicotomia che lega il virtuale al reale. Una relazione che al presente si nota in ogni elemento con il quale un individuo si può trovare a dover interagire.
Sono cadute le frontiere, i confini sono svaniti e con loro sicuramente tante certezze, nel presente come nel futuro bisognerà stare attenti a delle interazioni non desiderate, ma non si può più affermare che il virtuale e il reale siano due linee rette che vanno dritte e parallele, ma piuttosto che si sovrappongono per diventare un’unica nozione, una singola vicenda.

FUORI GRA

Con l’arrivo dell’autunno a Roma ci si prepara per la Rome Art Week (RAW), la più grande maratona d’arte contemporanea della capitale, ed anche quest’anno, come da tradizione, Spazio In Situ partecipa con un nuovo progetto: FUORI-GRA.Il gruppo di artisti, nato nel lontano 2016 nella lontana Tor Bella Monaca, ha cavalcato l’onda della prima edizione della RAW presentando Cosa Sarebbe Se?, la prima mostra collettiva dei sei artisti residenti nello Spazio. A questa prima esperienza sono seguite un ciclo di mostre personali raccolte sotto il titolo di Assurdità Contemporanee, grazie alle quali i diversi artisti hanno iniziato ad essere conosciuti al grande pubblico, ed il grande pubblico a sua volta, ha iniziato ad entrare in stretto contatto con una delle periferie romane più difficili.Spazio In Situ diventa un’officina di idee, contaminazioni e ibridazioni, ed è proprio la sua continua e costante effervescenza artistica a colpire ed interessare il circuito tradizionale del sistema dell’arte.In poco più di due anni i loro progetti nati nel suburbio della città, hanno valicato i confini fisici del Grande Raccordo Anulare, entrando nei salotti che contano della città eterna.Spazio in Situ da semplice gruppo di artisti si è presto trasformato in un vero e proprio artist-run space, dove gli spazi comuni trasformati in galleria espositiva, sono stati aperti alle idee e alle opere di artisti esterni, regalando a Tor Bella Monaca un respiro internazionale.Spazio In Situ diventa così un nuovo polo per l’arte in continua crescita. Ai sei artisti fondatori del progetto se ne sono aggiunti altri cinque, insediati in un nuovo studio che ha preso il nome di Spazio In Più. La stagione appena trascorsa è stata inaugurata e chiusa da due importanti mostre collettive per il gruppo: la prima Assurdità Contemporanea presso la Temple University e la seconda Chilometro 0 presso The Gallery Apart.Spazio In Situ, non è solo uno spazio indipendente, ma anche un luogo ai margini sia del sistema dell’arte, sia della città, perché da un punto di vista geografico si trova proprio al di là del GRA. Il gruppo di artisti, formato da: [Sveva Angeletti, Alessandra Cecchini Christophe ConstantinFrancesca CornacchiniMarco De RosaFederica Di PietrantonioChiara FantaccioneRoberta FollieroAndrea FrosoliniDaniele SciaccaGuendalina Urbani] per riscattare la loro posizione periferica e rivendicare la loro condizione di artisti in evoluzione in stretto contatto con la realtà del luogo che abitano, con il progetto FUORI-GRA inverte il normale processo di inurbamento, organizzando una maratona che dal centro della città taglierà il traguardo soltanto varcando la soglia del GRA.La periferia assume significato come luogo sempre in relazione ad un centro, ma qual’è la nostra idea di centro? E quanti centri attraversiamo e possediamo?Abbiamo l’abitudine di pensare il centro delle nostre città come il contenitore di ciò che è bello, di una tradizione culturale da valorizzare, un luogo accogliente in cui chiunque aspirerebbe a vivere, magari in un attico con vista sul Colosseo o anche un monolocale a Trastevere. Ma di certo gran parte delle persone non trascorre la loro vita nel centro storico, piuttosto lo attraversa come si attraversa un museo, che diventa così fiore all’occhiello delle istituzioni sempre aperto per una visita last minute.Il centro storico in questo senso resta per i romani il luogo simbolo di un’identità collettiva immaginaria, ingessata in una tradizione altrettanto collettivamente immaginata (oltreché inventata).Ma sono i luoghi in cui noi entriamo in relazione con l’Altro che rappresentano centri di valori e significati, luoghi di rappresentazioni culturali e produzioni identitarie, che danno senso al nostro vivere e percepire la città. Così la città diviene policentrica e i confini tra centro e periferia diventano sempre più soggettivi e modulabili, finanche ad invertire il senso dell’uno e dell’altro nei discorsi di chi li abita.È in quest’ottica che Spazio In Situ diventa una piazza aperta in cui riunirsi, diventa un centro dove si produce e si sostiene la cultura, un luogo in cui vivere e verso cui tendere.Con Il progetto Fuori-GRA gli artisti vogliono sottolineare come il Grande Raccordo Anulare sia per tutti una frontiera e al tempo stesso anche un limite psicologico.Gli undici artisti riuniti partiranno dal centro seguendo undici itinerari diversi e personali, che li porteranno ad affrontare il viaggio in maniera del tutto indipendente, proponendo per la prima volta una maratona a Roma che invece di girare intorno al Colosseo, ti porterà in altri centri vitali della città.

Chilometro 0

The Gallery Apart è orgogliosa di presentare Chilometro 0, mostra collettiva che propone il lavoro di alcuni degli artisti riuniti sotto il nome Spazio In Situ, sorta di organismo artistico vivente che a Tor Bella Monaca, una tra le più problematiche periferie romane, ha creato una realtà composta da 11 studi d’artista e un artist run space. Una programmazione di giovani artisti internazionali nello spazio espositivo e la condivisione quotidiana della pratica artistica in studio caratterizzano questa esperienza che intriga ed interroga la città. Ed è compito della galleria segnalare questa vitalità consentendo agli artisti di declinare in piena libertà la loro poetica fondata sullo stretto legame tra espressione artistica e condizione esistenziale, nonché sulla messa in discussione dei ruoli dei diversi soggetti in gioco nel campo artistico: dal curatore all’artista, dallo spettatore al gallerista. La mostra è curata da Porter Ducrist, enigmatico e sfuggente curatore embedded, di cui è di seguito riportato il testo di presentazione:
“Viviamo in una società basata sull’immagine, dove la rappresentazione è più importante dell’essenza. In questa confusione tra significato e significante è quasi impossibile distinguere il reale dall’illusione. Visto che siamo tutti consapevoli che tutto è finzione, qual è il ruolo dell’arte in questo mondo? Ci possiamo nascondere dietro un moralismo che rende l’arte più un gioco di società che un messaggio ideologico o una ricerca del “giusto”. Cos’è l’arte? Nella banalità di questa domanda si può già intuire una risposta. L’arte è arte, perché indagare? È una certezza che non necessita di essere rimessa in discussione! Uno status quo che conviene a tutti, ma che non porta da nessuna parte, non vede un futuro perché non lo cerca. Forse è ripartendo dalla sua genesi che l’arte può continuare a svilupparsi, e quindi continuare a essere degna d’interesse.
Partiamo dall’idea assurda che l’arte tenti di non esserlo più. Che l’oggetto esposto al pubblico venga liberato da qualsiasi pretesa, messaggio o valore aggiunto. “Quello che vedi è quello che è”, la sfida di Frank Stella ripresa da Donald Judd. L’arte che estrae la realtà per rappresentarla al meglio, rimettendosi in gioco tramite la concretezza del banale. Non cercando nient’altro che un punto di inizio per ricostruirsi e ripartire, ma questa volta su basi più sane per cercare almeno di continuare ad andare avanti dopo uno stato di vegetazione minimalista ormai durato troppo tempo. Questo punto di inizio, questo “Chilometro 0” sembrerebbe impossibile perché non si può negare l’importanza della storia dell’arte e non lo si deve fare, ma rappresenta l’unico modo con cui l’artista può continuare a fare quello che ha sempre dovuto fare, interrogare lo spettatore rappresentando il proprio periodo storico.
Considerando la società odierna un sistema totalitario dominato dallo spettacolo, diventa difficile per un artista continuare a indentificarsi come creatore d’immagini, la tecnologia avendolo privato del suo monopolio. Se tutto è arte, niente lo è più. Dal niente si può trovare una bella pista di indagine, una fonte d’ispirazione, dal niente si può ripartire ed è dal niente che “Chilometro 0” cerca di interrogare lo spettatore. Quest’ultimo si trova immerso in un contesto in cui il suo ruolo è centrale quanto lo è quello degli altri attori del sistema “Arte”, dal gallerista al curatore, ognuno obbligato a rimettersi in gioco e a rappresentarsi. Ogni opera esposta cerca di dare forma in maniera concreta al compito specifico di ciascuno di questi protagonisti, al punto da collocare l’artista quasi in secondo piano così da mettere piuttosto maggiormente in luce quello che lo circonda. Il reale nell’arte è sicuramente tanto staccato dal reale quanto da tante altre cose, ma non lo rende comunque meno reale di altre realtà. È forse da questa frase senza capo né coda che “Chilometro 0” e gli artisti presentati in mostra cercano di rappresentare la società contemporanea, trasformando la galleria in una finestra aperta sul reale.”
The Gallery Apart is proud to present Chilometro 0 (Zero Mile), a group show that brings together the works by the artists known as In Situ, a sort of artistic living organism who in Tor Bella Monaca, one of Rome’s most difficult neighbourhoods, have founded 11 artist’s studios and an artist run space. A programme that features young international artists in the exhibition space and the sharing of the everyday art practice in the studio characterize this experience that intrigues and engages the city. It is the responsibility of the gallery to point out such vitality in order to enable the artist to express in total freedom their poetics predicated on the intimate link between the artistic expression and existential condition, as well as on the calling into question of the roles of the various stakeholders involved in the art world: from the curator to the artist, from the spectator to the gallery owner. The exhibition is curated by Porter Ducrist, enigmatic and elusive embedded curator. Below is his presentation.
“We live in an image-based society, where representation is more important than the essence. In such confusion between signifier and signified, discerning between illusion and reality becomes nearly impossible. As we all are aware that everything is fiction, what is the role of art in our world? We can hide ourselves behind the moralism which makes art more like a parlor game than an ideological message or a quest of “the fair”. What is art? In such clichéd question, we can already grasp an answer. Art is art, why investigate? It is a certainty that does not need to be called into question! A status quo which is suitable to everyone but which does not lead anywhere, which does not see any future because it doesn’t look for it. If the art starts again from its genesis, it may continue to develop, and thus still be worthy of interest.
Let’s start from the absurd idea that art tries not to be interesting any longer. That the object exposed to the public is freed from any claim, message or added value. “What you see is what you see”, was the challenge launched by Frank Stella and which was taken up also by Donald Judd. The art that educes the reality to represent it as best as possible, starting from scratch through the concreteness of the trivial. Looking for nothing but to start anew, but this time on more solid foundations in order to go on after a too long, minimalist vegetative state. This starting point, this “Chilometro 0” would seem impossible because the importance of the history of art cannot, and should not, be denied, although it represents the only way through which the artist can continue to do what they have always had to do: urging the spectators to reflect by representing their current historical period.
As modern society seems a totalitarian system dominated by the spectacular, it is difficult for the artists to identify themselves as creators of images, since technology has deprived them of their monopoly. If everything is art, then nothing is art. A line of inquiry, a source of inspiration can stem from nothing, we can restart from nothing and it is from nothing that “Chilometro 0” attempts to urge the spectators to reflect. They find themselves immersed in a context where their role is as pivotal as that of the other stakeholders in the “Art” system, from the gallery owner to the curator, each of them called upon to take on new challenges and to represent themselves. Each artwork attempts to give shape to the specific task of each of these protagonists, to an extent that the artist is nearly relegated to the background in order to highlight what surrounds them. The real in art is definitely as detached and disconnected from the real as it is from many other things, but it is not less real than other realities. It is maybe from this statement apparently without rhyme or reason that “Chilometro 0” and the artists exhibited in the exhibition seek to represent the modern society, transforming the gallery into a window on reality.”

OUT OF SPACE

Sveva Angeletti | Christophe Constantin | Marco De Rosa | Federica Di Pietrantonio | Chiara Fantaccione | Roberta Folliero | Andrea Frosolini | Francesco Palluzzi | Daniele Sciacca | Elisa Selli | Guendalina Urbani

Due anni fa Spazio In Situ apriva le sue porte per la prima volta, interrogandosi su cosa sarebbe diventato a breve e a lungo termine. Due anni sono ormai passati e anche se tante domande hanno trovato risposta, le preoccupazioni sono sempre le stesse. Da sei artisti siamo passati a undici e i 400 mq sono diventati 600. Lo spazio di Tor Bella Monaca evolve, senza perdere la sua identità e la sua singolarità nel panorama artistico capitolino.
La linea dello spazio è più che mai tracciata: consapevole delle proprie qualità, In Situ si interroga riguardo il sistema dell’arte contemporanea, sulle sue caratteristiche e su quanto il suo statuto sia complesso. L’artist-run space è simultaneamente uno studio d’arte e uno spazio espositivo, zona di creazione e di fruizione, senza mai essere pienamente l’uno o l’altro. Personalmente lo qualificherei periferico al mondo dell’arte, una parola che Spazio In Situ ingloba pienamente sia a livello geografico che sul modo in cui si presenta come entità. Un luogo che lega la giovane produzione al rigore necessario, per trasmettere con qualità le idee degli artisti e permettere allo spettatore di fruire al meglio le opere. Uno spazio come questo ha un dovere morale da non sottovalutare, tanto quanto una galleria o un museo; tutti e tre sono mediatori di qualcosa di primordiale per la società odierna, la cultura. Questo ruolo non deve perdere di vista il suo potere pedagogico e le responsabilità che ne comporta.

Dare cultura o fare cultura è di per sé tentare di sradicare o per lo meno diminuire l’ignoranza costruendo un confine, operando in una zona rischiosa che purtroppo già è stata conquistata da un populismo internazionale. La qualità è democratica solamente se ottenuta studiando e lottando, essa si merita. È unicamente valutando la qualità, l’impegno, la consapevolezza di responsabilità morale e la coerenza che si può definire il coefficiente culturale di un operatore artistico. Presuntuoso? Sicuramente. Si tratta più di un ideale che di una vera qualifica, l’obbiettivo comune da raggiungere.

L’artist-run space può e deve tenerlo a mente: la ricerca di un miglioramento dell’offerta culturale non si presenta come prodotto ma come dono. È necessaria una costanza nella qualità dei lavori proposti, puntando non solo sulla realizzazione, ma soprattutto sul contenuto tramite messaggi universalmente leggibili per chi conosce il linguaggio dell’arte. Come tutte le altre lingue, questa necessita uno sforzo: ha la sua grammatica, che permette la chiarezza sulle intenzioni e sul messaggio, un’ortografia, ovvero il modo in cui si deve presentare, una coniugazione, legata al rapporto con la società odierna, e un vocabolario, costituito dalle forme che compongono l’opera. Tutti possono pretendere di essere artisti, come tutti possono pretendere di parlare inglese, ma solo i fatti certificano le parole, l’azione definisce l’autenticità di tale pretesa. Non sono i like o altri strumenti di misurazione che consentono la valutazione di un’opera, bensì le competenze di chi la fa e di chi la giudica. Questo fragile equilibrio esige un’eterna rimessa in questione, in un ambito che non deve essere contaminato dall’ignoranza; protetto ma aperto, non si deve mai staccare dal mondo reale. Come detto prima, è una grande responsabilità quella di diffondere cultura, pertanto un mediatore artistico deve valutare senza perdere di vista queste necessità, prima fra tutte la coerenza tra parole e azioni.

Spazio In Situ è cosciente di queste responsabilità e del suo ruolo, quello di uno spazio in cui la condivisione, il dialogo e la serietà si sposano per creare arte, uno spazio giovane, in perpetuo sviluppo che si costruisce su una base solida.
Dopo due anni, Spazio In Situ cambia forma, una crescita non solo della sua superfice e degli artisti che lo compongono, ma anche una crescita di consapevolezza del suo dovere e delle sue caratteristiche. Anche quest’anno In Situ riflette su quello che è, uno spazio di fruizione e di produzione periferico. “Out of space” è un nuovo interrogativo degli artisti di fronte allo spazio che abitano, senza perdere di vista la leggerezza che infondono nella loro produzione.

Porter Ducrist

Out of space, fuori dallo spazio, fuori dal proprio spazio, fuori luogo, in periferia; ancora nel linguaggio informatico, fine dello spazio di archiviazione dati. Con questa mostra Spazio In Situ inaugura altri cinque studi d’artista, presentati sotto il nome di Spazio In Più.

Come altre volte in passato, il vero protagonista della mostra è il contesto, all’interno del quale gli artisti intervengono con sottolineature leggere. Un artist-run space è uno spazio in periferia rispetto al Sistema dell’Arte; in questo caso però la periferia è anche geografica e su tale aspetto giocano questi artisti che, a ogni inaugurazione, sfidano le distanze e invitano il pubblico a uscire dai confini del circuito ufficiale di musei e gallerie per approdare nel quartiere di Tor Bella Monaca.

Questa mostra su due livelli apre un nuovo capitolo, una nuova narrazione; il Tempo è di nuovo co-protagonista e le opere, volutamente in ombra rispetto al luogo che abitano, dialogano con quest’ultimo e tra di loro, mentre noi siamo inconsapevolmente partecipi di un’attesa, con la temporalità straziante e soggettiva che essa comporta. La mostra parte dall’assunto che ciò che vediamo all’interno di un luogo espositivo sia necessariamente arte. Quest’ultima è però mostrata senza sfarzi e senza sforzi, nella sua condizione di oggetto; l’intervento dell’artista in alcuni casi è appena percettibile e questa presenza così labile è la chiave di lettura dello spazio.

Le opere ci spingono così a riconsiderare il contesto in termini nuovi, senza cercare rifugio nelle forme o nelle rassicuranti categorie che solitamente incasellano le opere d’arte. Alla domanda “cosa ho davanti?” non c’è risposta perché l’unico interrogativo al quale questi artisti vogliono attualmente rispondere è “dove sono?”; ogni intervento è quindi pensato per rivendicare l’identità forte che Spazio In Situ ha costruito nel corso di questi due anni di attività. Lavorando in funzione del contesto che non è solo quello interno alle quattro mura, ma anche il quartiere, la città, con le proprie caratteristiche e problematiche, ogni artista sposta l’attenzione su ciò che solitamente è cornice, contenitore. L’inutilità del gesto artistico è rivendicata con forza attraverso operazioni che rifiutano interpretazioni poetiche e si rivolgono unicamente alla realtà, con le sue molteplici e contraddittorie sfaccettature.

Out of Space non è un tentativo ingenuo di sovvertire le leggi del mercato, anzi. La mostra è una lettura lucida dello spazio, reale e virtuale nel quale l’opera compie il suo ciclo vitale. Gli artisti, attraverso movimenti impercettibili, modulazioni di luce, messe in scena, artifici apparentemente inutili, disegnano davanti ai nostri occhi la scenografia di un luogo che, pur essendo fortemente radicato alla realtà, è contenitore di finzione.

Il tempo che abitiamo è sospeso, in attesa di un nuovo episodio.

Alessandra Cecchini

Assurdità Contemporanea

Christophe Constantin | Marco De Rosa | Chiara Fantaccione | Roberta Folliero | Andrea Frosolini | Francesco Palluzzi | Elisa Selli

Se si provasse a rinchiudere sette artisti in una gabbia come dei ratti di laboratorio, per osservare come reagiscono tra di loro e come le loro produzioni si contaminano, si potrebbero percepire delle preoccupazioni comuni. Un’ideologia trasportata da un gruppo d’individui obbligati a confrontarsi e pensare come collettività. Un linguaggio comune che non sovrasta ogni singola produzione, bensì la rafforza, grazie ad un incrocio omogeneo di segni che si mescolano per scrivere un testo intelligibile, integrato in nel contesto storico e sociale attuale..
Quest’esperimento è stato realizzato a Spazio In Situ, artist-run space nella periferia romana, un’immensa white cube nella quale lavorano un gruppo di artisti che, durante gli ultimi due anni, hanno proposto un ciclo di mostre personali intitolato “Assurdità Contemporanea”.
Invitandoli, la Temple University, offre al pubblico una visione d’insieme di questo ciclo. Una mostra nella quale lo spettatore si perde nel pensiero complesso di sette artisti che ritraggono il mondo che li circonda. Le due stanze espositive della Temple University Gallery si trasformano in una bacheca sulla quale ognuno di loro offre al pubblico la sua visione della società odierna. Le opere esposte dialogano come gli artisti fanno durante la loro convivenza, “Assurdità contemporanea” porta lo spettatore nello spirito schizofrenico della società contemporanea, nella quale si è persa il confine tra illusione e reale.

In Situ ha inaugurato i suoi spazi in ottobre del 2016 presentando Cosa Sarebbe se?, mostra collettiva che ha visto protagonisti i sei artisti creatori del progetto. Il collettivo In Situ nasce dall’esigenza di unirsi, senza costituirsi come gruppo nel significato storico-critico del termine, per rispondere alla necessità di far fronte, insieme, alla complessità dell’essere artista nella società contemporanea, e di fare della propria individuale ricerca un vero mestiere. Più che un insieme di studi, InSitu è un laboratorio di idee, un luogo in cui la condivisione e il confronto sono occasioni di crescita personale e collettiva. L’ambiente è aperto, nessuna divisione o barriera separa gli studi di ciascun artista. Le opere, libere di vivere lo spazio, comunicano tra loro, si contaminano, e danno vita a connessioni neuronali tipiche di un complesso ipertesto, serbatoio inesauribile di possibilità. In Situ, un organismo in continua trasformazione ed evoluzione, presenta esposizioni come “Assurdità Contemporanee”, un ciclo di sei mostre monografiche che si sono susseguite negli ultimi due anni, dove sono stati esposti gli inediti lavori di Marco De Rosa, Roberta Folliero, Andrea Frosolini, Christophe Constantin, Francesco Palluzzi ed Elisa Selli, frutto delle loro più recenti ricerche. Lo studio per l’allestimento delle mostre si trasforma in un White Cube, un tempo tempio di quel modernismo che elevava nell’iperuranio ogni opera d’arte che ne varcava la soglia, si tramuta qui in un ecosistema creativo e habitat di ibridazioni, in cui oggetti d’uso comune assurgono a protagonisti di un concept che sottolinea l’ingresso del reale all’interno dello spazio-museo, come necessità gnoseologica.

IN DA PLACE

Christophe Constantin | Marco De Rosa | Chiara Fantaccione | Roberta Folliero | Andrea Frosolini | Francesco Palluzzi | Elisa Selli

Non si può trovare migliore situazione, per parlare del luogo, dello Spazio In Situ.
Quest’ultimo aggrega varie caratteristiche che amplificano problematiche sullo spazio in modo esponenziale, dalla sua posizione geografica al suo statuto inafferrabile; tutto sembra interrogare lo spettatore sulla vera definizione di ”spazio espositivo”. Entrando in un luogo come questo si penetra in una sorta di limbo dove le opere presentate, appena uscite dal retrobottega, sono esposte al pubblico; In Situ diventa uno spazio di sperimentazione sia formale che concettuale in cui gli artisti si divertono giocando con segni e materiali. Entrando subito in confronto con un possibile spettatore e con una critica, le opere in un luogo come questo, che si ama definire come off-space, hanno ancora la possibilità di essere modificate, dandogli la possibilità di continuare a crescere e quindi di esistere in un tempo parallelo a quello reale.
Spazio In Situ è come una pellicola sensibile sulla quale vengono stampate a tempo reale le intuizioni e riflessioni degli artisti invitati.

Questo spazio espositivo, qualificabile come Non-Luogo, non ha niente da invidiare alle gallerie più importanti della capitale, anzi la sua ubicazione a Tor Bella Monaca obbliga chiunque ad intraprendere un viaggio che si trasformerà presto in un’esperienza estetica della realtà “fuori GRA” (limite psicologico della città), al di fuori dell’ambito artistico romano. In questo laboratorio s’intravede un possibile futuro, una ricerca incentrata sul presente; lo spettatore è integrato all’opera, invitato a guardare e ad interrogarsi su tutto quello che lo circonda, dai muri bianchi e il concetto di White cube, alle caratteristiche architettoniche od ai rumori dell’ambiente, persino il pavimento di cemento sporco dai lavori di ristrutturazione e di allestimento delle varie mostre.

In Da Place tenta di raggruppare tutto quello che Spazio In Situ è; presentando al pubblico un rapporto intimo tra artista e luogo, una discussione tra questi due concetti confusi in un mondo dove tutto è estetizzato e dove la nozione di spazio reale e tangibile si trova sempre contaminata da quella virtuale e immateriale.

Eco

La seconda mostra in programma è quella di Andrea Frosolini, dal titolo Eco. Cos’è un’ombra se non una proiezione inevitabilmente parziale e distorta del reale, incapace com’è di restituire un’immagine veritiera della sua fonte? Essa è, dopotutto, un residuo consolatorio, un impalpabile e sfuggente disegno che può solo rimandare alla sua origine. In un mondo pervaso da una luminosità diffusa spesso abbagliante, quella delle esperienze virtuali proiettate su innumerevoli schermi, così come quella emanata da mezzi di informazione fintamente rassicuranti, Andrea Frosolini, con la sua sensibilità finissima, apre una dimensione in cui l’aspetto attuale delle cose non combacia più con le sembianze che si era soliti attribuirgli.

La sua ricerca si configura come un’indagine, poeticamente disturbante, delle ambiguità di fondo che caratterizzano il nostro presente instabile, con l’intento di tradurle in opere al confine tra presenza e assenza, tra celato e manifesto. Ai dettami imposti da una società in cui dominano sorveglianza e spettacolarizzazione, Frosolini contrappone un lirismo spiazzante, sbilanciando il rapporto vincolante che unisce segno e significazione: ogni compensazione tra pieno e vuoto, ogni parvenza di equilibrio tra la concretezza fi- sica dell’oggetto e il suo appiattimento sulle superfici, viene spostata in favore della controparte latente, che, lungi dall’essere mero simulacro, diventa corpo e acquista un inedito spessore, sia materico che concettuale. L’ossessione estetizzante tipica della nostra epoca, assieme alla sua tendenza al livellamento del gusto e allo spianamento di qualsiasi fervore rivoluzionario, vengono denunciati attraverso l’esibizione di una paradossalità sottile, giocata su una continua alternanza tra note pop e toni intellettuali (tensioni idealizzanti si alternano a riferimenti commerciali), tra volumi scultorei e inserti più pittorici (gli ingombri plastici si accostano infatti a precise scelte cromatiche). C’è un’indubbia componente pornografica nelle pseudo-realtà che viviamo ogni giorno, popolate da modelli ai quali siamo chiamati a uniformarci. Ridotto a ombra di se stesso, il mondo occidentale già da tempo si è piegato di fronte al potere autoritario delle facili categorizzazioni, instupidito dai miraggi cangianti che nutrono il nostro immaginario ipertrofico.

In questo scenario desolante dove tutto è messo sotto i riflettori, le ombre di Frosolini vogliono porre l’attenzione sulla necessaria rivalutazione delle zone buie, dispiegate come un’eco di parole passate ma ancora cariche di presagi. Riflessi impossibili dai colori ottusi si estendono come appendici seducenti e riempiono lo spazio allungandosi beffardi. Impronte di velluto, che si impongono allo sguardo come sagome autonome, fanno fieramente le veci delle parti asportate di cui dovrebbero essere la sostituzione, il surrogato bidimensionale. Lo si vede negli oggetti comuni tagliati da una lastra di plexiglas che ne interrompe i profili e li scompone in forme improbabili (mobili firmati IKEA ma dal sapore sempre anonimo, voluta- mente depersonalizzato per soddisfare le esigenze più varie), così come nella silhouette di una sedia realizzata a grattage su un telo di plastica, che con la sua sospensione fantasmatica ridefinisce i concetti di trasparenza e opacità (presenza evanescente, certo, ma dall’identità ben definita). Una cornice dorata pende dal soffitto, fragile compromesso tra opulenza ed eleganza. Essa non inquadra il nulla, ma delimita, senza costringerlo, un vuoto fecondo, campo immaginifico dalle inespresse potenzialità. Non resta che chiedersi se il reale, o qualsiasi cosa venga, ostentandolo, spacciato per esso, sia effettivamente quello che è non tanto grazie a ciò che esiste, ma in virtù di ciò che manca.

Edoardo Maggi

La seconda mostra di Assurdità contemporanea è proposta da Andrea Frosolini. “Eco” introduce le nuove creazioni dell’artista, un lavoro che mantiene il tocco romantico dell’artista integrandoci una bella dose di cinismo. Le opere in mostra si presentono come una variazione su una forma, una ricerca di spezzamenti di piani paragonabile alla pratica dei Cubisti, il dipinto diventa scultura la superficie si apre nello spazio. Il quadro non è quello che è incorniciato ma quello che incornicia, ossia lo spazio espositivo. L’artista gioca tra il design e l’istallazione, tra il Kitsch e il minimal senza per lo più cadere da un lato o l’atro, ci presenta uno spettacolo di equilibrista sia formale sia concettuale. La perdita, la sparizione, il ricordo potrebbero saltare in mente a qualsiasi occhio davanti ad una di queste opere, ma il lavoro presentato da Frosolini è molto più sottile, nella sua purezza plastica, l’artista ci presenta un paesaggio della società dominante, una satira sul modo in cui funziona il mondo, sul valore che esso alla gente e agli oggetti. La lettura di queste opere si deve fare come camminando su un filo, l’abbiamo detto la pratica di Frosolini e simultaneamente Cinica e Poetica, pittura e scultura, preziosa e scarsa, quest’ultimo contrasto è sicuramente il punto che collega l’artista al mondo reale in cui vive, non tenta di sublimare Ikea e consorte, non tende neanche a criticarlo, ci presenta un dato di fatto: La standardizzazione dei gusti della società in direzione della mediocrità e del finto. Comprate e ricomprate, cambiate, gestite la vostra immagine, personalizzate la vostra vita! Come se non era possibile farlo senza acquisire mobili, che di più tutti hanno! Personalizzare è diventato la parola chiave di questo decennio, rendere personale, l’unica cosa che perde la personalità sembra essere chi ci crede. “ Eco” come il titolo lascia intuire ci presenta un grande vuoto che si fa la cassa di risonanza del consumismo, con i suoi oggetti che svengono in istantanei di velluto, la mostra è nella sua completezza un ritratto della vanità contemporanea, in cui tutto si crea ma niente permane, una società del effimero, in cui i vostri sogni vengono mangiati da una normalizzazione dell’essere, di una perdita d’identità. L’artista ci presenta la sua incomprensione di fronte a tale situazione, ci trasmette l’occhio incerto dei suoi coetanei, ci fa passare dall’altra parte della finestra, ci presenta il lato spetrale di una società in cui non si produce niente che rappresenta il nostro passaggio, nella quale non è più considerato il valore, ma la quantità, una società che crea più rifiuti che oggetti. L’artista c’invita a prendere distanza e a girare sul mondo in cui viviamo ed usa In Situ come pellicola sensibile per fare il ritratto della realtà.

Porter Ducrist

Cosa Sarebbe Se?

Christophe Constantin | Marco De Rosa | Roberta Folliero | Andrea Frosolini | Francesco Palluzzi | Elisa Selli

Risulta difficile, al giorno d’oggi, riferirsi a un movimento artistico e parlare di “gruppo”, poichè questi, in passato, erano catalogati, inquadrati rispettando determinati criteri formali. La libertà di creazione che caratterizza l’artista “contemporaneo”, mette la critica in difficoltà, perché essa non riesce più a trovare una linea che possa essere comune a un gruppo, senza utilizzare tematiche banali. Gli artisti che abitano il nostro tempo, con le loro possibilità infinite di viaggiare e spaziare, d’incontrarsi e mischiarsi con altre culture ed altre visioni, con la loro necessita di utilizzare internet e di essere interconnessi con il mondo esterno, posseggono, ogni giorno di più, caratteristiche cosi eterogenee che non possono essere inquadrate in un “movimento” che abbia aspetti comuni. Questo nuovo “modus vivendi e operandi” di ogni artista permette una possibilità infinita di scambi e informazioni. Paradossalmente, però, anche la disinformazione diventa virale, certezza e incertezza viaggiano sullo stesso binario, per cui, se è vero che le possibilità si moltiplicano, è anche vero che, per paura e timore molte strade non vengono esplorate.

La società in cui viviamo, cosi piena di stimoli e contraddizioni, genera in ogni individuo una profonda crisi. Ci siamo abituati al continuo peggioramento della nostra condizione, abbiamo accettato l’inaccettabile solo per paura di un ulteriore peggioramento che in realtà è ineluttabile. La nostra società rimane ferma, congelata nella sua routine, evitando di porsi una domanda fondamentale, frontiera di un possibile cambiamento: “Cosa sarebbe se?” Cosa sarebbe se non avessimo tutto ciò che ci definisce come uomini moderni ed evoluti, come sarebbe senza le nostre comodità e nostri soldi, le macchine, autostrade, i medici e i farmaci che ci mantengono in vita? Come sarebbe senza tutte queste cose che per noi sono irrinunciabili e che pur creano tutto questo malessere? Quante rinunce saremmo costretti a fare solo per esserci posti un simile interrogativo?

In Situ si pone queste domande. Questi sei artisti non sono un gruppo che segue tematiche o pratiche simili, ma sono sei giovani che provano a realizzare l’utopica idea di diventare artisti, provando ad avere un slancio verso il cambiamento sociale. La mostra a voi presentata, tenta di mantenere la forma attuale del sistema, cercando di proporla in maniera diversa. Accosta “l’emergenza di rivoluzione” delle nostre condizioni umane, non senza considerare la necessaria certezza che ci viene dalla società consumistica.

L’istallazione di Elisa Selli è un ottimo esempio di questo proposito. Viene proposta una visione alternativa dello spazio, in cui lo spettatore si trova al di sotto di alcuni mobili, forzato a contemplare la caduta degli oggetti. Il tutto è annunciato da una sedia spaccata sul pavimento. Il possibile sacrificio che il cambiamento proposto porta con se è ottenuto giocando con l’occhio dello spettatore. In questo allestimento assurdo, che cambia il punto di vista del fruitore e che inverte la realtà, si evince la dialettica tra reale ed illusione. Forse lo spettatore è nel posto sbagliato, ma è convinto che il suo pensiero sia calcato sulla verità, perché il suo punto di vista viene cambiato, ma non sconvolto. In quest’opera è sublimata la distruzione ed è presentata come un cambiamento verso un possibile reale più giusto.

Con le sue anamorfosi Marco De Rosa invita ed obbliga lo spettatore a cambiare posizioni e punti di vista. L’opera, vista frontalmente, forma un rettangolo. Solo quando giriamo intorno ad essa notiamo che la forma si decompone in vari pezzi di cortecce. Ognuna di esse è il frammento di un tutto e, pur non condividendo il medesimo piano dimensionale, sono indissociabili. Qual è la visione giusta dalla quale contemplare questo lavoro? La visione frontale e bidimensionale che è la più astratta, oppure quella in cui l’opera prende vita? L’invito in questo caso è considerare l’opera nel suo insieme e, contemporaneamente, spostarsi e considerare ogni pezzo nella sua unicità, dimenticando la forma iniziale. La stratificazione confonde lo spettatore, facendogli perdere di vista ciò che è reale e ciò che invece è illusione.

Francesco Palluzzi ci presenta anche lui una stratificazione affrontata però in modo meno formale. I suoi dipinti tratti da collage multimediali pongono lo spettatore di fronte all’interrogativo riguardo le varie tempistiche e la realizzazione di questo lavoro. Il dipinto non è tratto da un oggetto reale ma da un montaggio informatico. Palluzzi utilizza il concetto di messa in abisso, che spinge lo spettatore ad interrogarsi sulla propria società. Nell’opera, infatti, la realtà viene filtrata in modo da diventare onirica, finendo per perdere tutte le caratteristiche tipiche della realtà stessa. Un sogno che integra il reale e lo ingloba fino a renderlo irriconoscibile. L’opera di Francesco fa da eco a quella della Selli. In entrambi i casi lo spettatore deve rimettere in discussione le proprie certezze. Se ogni certezza viene tagliata la realtà finisce per crollare.

Quest’ultima affermazione ben si presta ad introdurre il lavoro di Andrea Frosolini. La sua lastra di marmo, sorretta da fili che, troppo sottili, mettono a rischio il destino della lastra stessa. Nel caso la lastra cadesse a terra, i frammenti di essa non saranno però da buttare ma saranno ricostruzione e racconto di ciò che è avvenuto. Da questi si può iniziare qualcosa di nuovo, senza dimenticare gli errori che hanno portato a tale distruzione. Dalla contemplazione di queste materie nasce la possibilità e l’esigenza di ricostruire. I frammenti di questo lavoro assumono un significato analogo alle rovine della Roma antica: monito per il futuro e ricordo di ciò che è stato. Una forte malinconia che non può lasciare il fruitore indifferente.

Roberta Folliero, attraverso il suo lavoro sembra chiederci: “Cosa ci è successo, come sarebbe il mondo senza il consumismo imperante e cosa sarebbero le nostre vite senza la certezza confortante del ricordo?”. La plastica che ricama diventa un filtro che separa l’arte dalla realtà, come se volesse preservarla, ricalcando l’atteggiamento delle nostre nonne che facevano lo stesso con i loro mobili. Tutto ciò, era ben prima della “generazione Ikea”, questa società del “pret à jeter”. Il lavoro della Folliero ironizza l’incomprensione che possono avere gli anziani sulla nostra società. La vivono, la guardano, ma in fondo non ne fanno totalmente parte. Il ritmo con il quale la società si muove, li lascia senza fiato, ma forse accade lo stesso anche con i più giovani, che si perdono nella corrente della troppa informazione, cercando un punto d’attacco al quale credere. Ma anche le certezze più indiscusse possono venire meno nella società di oggi: pensiamo che ogni cosa esista nella sua unicità in un solo posto e in un solo istante. In realtà oggi le nuove tecnologie permettono di condividere varie situazioni simultaneamente, il lavoro di Christophe Constantin è tratto da questo problema. L’opera condivide una realtà in vari luoghi. Constantin ci invita a viaggiare e ci connette con le opere della stessa serie. Il fruitore non può interagire direttamente con tutte le altre opere, a livello materiale, ma attraverso una sola opera può virtualmente usufruire delle altre. Le opere degli artisti di In Situ svelano, considerate unitamente le une alle altre, una nuova visione di vivere nel mondo di oggi con tutte le sue incertezze e le sue precarietà. Esse sono svelate anche attraverso l’uso e le scelte di materie tipiche di un’arte odierna per i materiali ma non per i contenuti. Il futuro prospettato dagli artisti è volutamente sfocato e incerto poiché la nostra società deve assolutamente compiere una netta inversione di marcia, rifiutando il consumo sconsiderato, lo spreco e le distruzioni. Tutto ciò impone, però, un distacco dalle comodità e dalle certezze del sistema presente ed è proprio questo nuovo approccio che i ragazzi propongono. Il futuro è il cambiamento che scegliamo di fare oggi. Non posso comunque attestare che tutto ciò sia una certezza, ma penso che serva ad aprire vie di riflessione.